3 agosto 2006, ore 2.15, casa
E’ notte. Stiamo dormendo. Mia figlia, due anni, è tornata da due giorni dalla Sicilia con mia madre per aspettare, insieme a mamma e papà, l’arrivo di Matteo, fratellino tanto desiderato. Il silenzio della notte è rotto improvvisamente dalla mia voce “Mio Dio… si sono rotte le acque…”. Di corsa mi preparo e lo stesso il mio compagno. Bacio Martina che dorme nella sua cameretta, la bacio ancora altre tre, quattro volte…saluto mia madre e andiamo verso l’ospedale. Il tempo in cui bacio Martina è l’ultimo di intimità con mia figlia, l’ultimo in cui esiste visivamente solo lei e in cui la mia serenità è alle stelle.
Percorriamo in auto il Lungotevere fino al pronto soccorso dell’Isola Tiberina ancora con il sorriso sulle labbra. Non so minimamente cosa mi aspetterà di qui a poco.
3 agosto 2006, ore 17:40, Isola Tiberina, Ospedale Fatebenefratelli
“Respira!!! Forza!!! Dai!!! tira fuori tutta l’aria e spingi forte!!!… Eccolo qui!!! Benvenuto Matteo!!!”.
Nasce Matteo e nasce con bretelle e collana: il cordone ombelicale gli si è avvolto intorno a spalle, braccia e collo. Lo appoggiano sulla mia pancia, solo qualche secondo… sembra un coniglietto, ma non sento il suo pianto deciso… solo un vagito tenue…… quando è nata Martina urlava… com’è fragile Matteo…
Un’infermiera porta via Matteo e invita il papà a seguirla perché assista alla visita pediatrica e alle prime cure che rivolgeranno a nostro figlio. L’ostetrica rimane con me per qualche minuto, mi svuota e si allontana. Io resto da sola ancora in posizione da parto. Non posso muovermi o sollevare la testa perché l’anestesista ha sbagliato nel farmi l’epidurale bucando la dura madre: è cominciato un mal di testa fortissimo che passerà dopo un mese e mezzo. Mi accorgo, con molto disagio e vergogna, che dalla parte superiore della porta del box in cui mi trovo un tecnico della luce, in piedi su una scala a forbice che un altro tecnico regge da sotto, sta sistemando un neon. L’uomo che sta sulla scala ha campo visivo totalmente libero su me e sulle altre donne che stanno in travaglio o che stanno per partorire…che meraviglia…!!!
Rimango così, ma serena perché mio figlio è nato e tutti i dubbi che per giorni mi hanno attanagliata, prima della sua nascita, si sono sciolti. A giugno sono stata ricoverata in questo ospedale per due settimane; hanno monitorato il mio liquido amniotico che era eccessivo, ma non tanto da aspirarlo. Si sono scervellati, mi hanno ribaltata come un pedalino, esaminata con strumenti pazzeschi, compresa l’ecografia 4D … fatta quella, sono uscita fuori dall’ambulatorio con un grosso punto interrogativo: “Signora, potrebbero essere capelli quelli sulla nuca, ma non credo che in questa settimana possa averne così tanti. Sono ipotizzabili dei bozzi ma non sappiamo di che natura e non possiamo saperlo finché non nascerà”. Quel giorno avevo pensato di morire, ma per fortuna mio figlio oggi è nato sano. È pieno di capelli!!! Niente bozzi sulla nuca!!! Hanno sbagliato per fortuna!!!
Matteo è nato e sta bene! Io devo solo riprendermi.
Il silenzio che mi circonda, però, è assordante. Passano i minuti e continuo ad essere completamente sola, come se tutti si fossero scordati di me. Passano altri dieci, venti minuti.
NULLA.
Il SILENZIO e la SOLITUDINE.
Comincio a preoccuparmi. Ma non voglio pensare negativo. Mio figlio è appena nato e bisogna festeggiare! Da sdraiata guardo verso il corridoio sperando arrivi qualcuno e vedo la sagoma del mio compagno riflessa sul vetro di un mobiletto che sta proprio di fronte il mio box… lo chiamo… ma lui scappa via.
Dopo altri cinque minuti, entra la ginecologa che ha assistito al parto, si avvicina a me con gli occhi bassi e scrive qualcosa sulla mia cartella clinica. Mi mette una mano sulla spalla e mi dice “signora, il bimbo è sano… ha solo qualche problema… ma ora le spiegheranno… suo marito non è tornato da lei? Non le ha detto nulla?”. No. Lui non è tornato da me. NON SO NULLA
Arriva il mio compagno pallido e serio, con lo sguardo perso nel vuoto. Prova ad accennare un sorriso, si siede vicino a me, mi prende la mano e mi dice : “Matteo sta bene, ma ha un piccolo problema…”... “Cosa??? che PROBLEMA? Cos’ha ???”
Il BUIO mi piomba addosso.
Mentre il mio compagno cerca di spiegarmi ciò che è successo senza riuscire a farlo con cognizione di causa e con la serenità che vorrebbe trasmettermi, ma che non ha, la mia mente si assenta, si ferma, si blocca…il pensiero si congela e nessuna informazione trova spazio dentro me. L’unica parola che campeggia e ha sempre più presa è PROBLEMA… il mio compagno parla, parla e parla… le sue labbra si muovono di continuo e sicuramente producono tante parole e la sua voce deve probabilmente avere un tono rassicurante. Io però mi sento improvvisamente SORDA, MUTA, MORTA.
Forse morire è così: il corpo stravolto e immobile su un letto, e l’anima che se ne distacca. Ecco quello che vivo.
L’unica cosa che riesco a fare è piangere. Comincia un pianto disperato, ininterrotto, gutturale, inconsolabile, silenzioso. Il mio compagno è vicino a me, ma non ha forza. Continua a dire “risolveremo tutto”, ma queste parole non mi arrivano e risultano prive di convinzione.
Dopo circa quindici minuti si apre la porta e il pediatra e due infermieri entrano nel mio box spingendo una scatola trasparente con un bimbo sdraiato all’interno e la affiancano al mio letto. “Signora guardi suo figlio, lo saluti. Lo portiamo su in TIN, dove sarà assistito giorno e notte”.
Dentro l’incubatrice Matteo, ormai ripulito, è sdraiato sul fianco, vestito solo da un pannolino, cosparso di elettrodi e fili e con la bocca occupata da un tubo (la cannula di Mayo) che, mi spiegano, gli tiene la lingua abbassata e lo fa respirare meglio. Io cerco di tirarmi sù e appoggiarmi sul fianco per vedere mio figlio e accennargli un sorriso per accoglierlo… lui piange, si dimena e con la manina cerca di togliere quel maledetto tubo dalla bocca.Gli infermieri lo portano via dopo qualche secondo seguiti dal mio compagno.
Ed io rimango lì, di nuovo sola, immersa nella disperazione totale, nell’impotenza e nell’incredulità, nell’impossibilità di abbracciare mio figlio e di offrirgli tenerezza e coccole, di accoglierlo nella sua e nella mia vita.
Da quel momento per tre mesi e mezzo mamma e papà potranno vederlo e toccarlo solo in determinate ore della giornata. La BATTAGLIA di Matteo, lunga, dolorosa ed estenuante, è appena cominciata e la mia vita cambia.
4-5-6-7-8 … agosto 2006
Per sei lunghissimi giorni rimango immobile sul letto che mi è stato assegnato in una stanza del reparto di ostetricia e ginecologia insieme ad altre due neo-mamme che hanno la fortuna di avere a fianco a sé le proprie creature.
Lo stravolgimento del mio sistema nervoso centrale, a causa della perforazione della dura madre, non mi consente neanche di staccare la testa dal cuscino; non sento lo stimolo ad urinare e per questo porterò il catetere per undici giorni e farò tanta ginnastica vescicale; non sento bene la forza del mio morso quando mangio; i miei occhi vacillano; la mia testa scoppia dal dolore e per questo un aggeggio pompa di continuo antidolorifico nelle mie vene.
L’anestesista giovanissimo che ha fatto il casino è mortificato e mi viene a trovare due volte al giorno; dal taschino del suo camice ogni volta tira fuori una Toradol che in fretta e furia mi inietta dandomi sollievo per qualche ora. Gli infermieri mi continuano a portare caffè o coca cola perché la caffeina aiuterà a restringere il foro. E io bevo quelle cose con un unico pensiero rivolto a mio figlio, senza ancora sapere che quelle sostanze, attraverso il mio latte, arrecheranno a Matteo mal di pancia e diarrea.
Mia sorella e mia madre, munite di permesso speciale del primario, si alternano di giorno e di notte per i primi tre giorni. Il mio compagno sale e scende dal terzo piano, in cui si trova la terapia intensiva neonatale e da lì mi porta da vedere le foto che fa a Matteo con il suo cellulare. Mia sorella si avventa su me con un tiralatte che attacca ora ad una mammella ora ad un’altra perché “è meglio che Matteo sia nutrito dal tuo latte!… ti aiuto io”… e il mio corpo continua ad essere oltraggiato da mani e strumenti che non sento più. L’unica cosa che sento è la necessità viscerale di toccare mio figlio.
Volevo solo dare alla luce un figlio e stare vicina a lui. E invece mi ritrovo orfana di questo figlio, lontana dall’altra figlia, incollata ad un letto di ospedale con tubi, aghi e tubi addosso e con la dignità ridotta a zero per la necessità di essere assistita in tutto. Il 9 agosto arriva dalla Sicilia mio padre. Non dimenticherò più il suo ingresso nella mia stanza che in quel momento era piena di amici e parenti. Era come se non vedesse nessuno se non me. E’ venuto diretto e veloce verso il mio letto e mi ha abbracciato forte forte.
Da quando è nato non ho più potuto vedere Matteo perché le mie condizioni non mi hanno permesso di alzarmi dal letto. Alla fine, dopo sei giorni, hanno pietà di me e del mio pianto continuo e il medico decide che seduta sulla sedia a rotelle posso provare ad andare in TIN per incontrare Matteo. Mi staccano momentaneamente la flebo e spinta dal mio compagno vado su in ascensore. Il mio compagno mi conduce verso una delle incubatrici che si trovano in terapia intensiva neonatale e lì trovo Matteo. Il mal di testa mi lacera. Infilo la mano in uno dei due fori impaurita e lo tocco. Il nostro primo abbraccio e il nostro riconoscerci avviene così, tramite un vetro perforato. Lui è disperato e io con lui.
Mi guardo velocemente intorno e vedo mamme o papà che, nella mia stessa posizione, cercano un contatto meno medicalizzato con i propri cuccioli. Con alcuni di questi genitori inizierà subito un rapporto molto intenso che non cesserà mai di esistere. Matteo è il più grande dei bimbi là dentro. Lui è nato a 37 settimane e due giorni e pesa 2780 gr. Non è per niente piccolo come alcuni di quei bambini nati anche alla ventesima settimana. Ha bisogno però di assistenza continua per via delle crisi respiratorie e delle apnee che si susseguono più volte durante le giornate a causa della micrognazia e della lingua che rimane a bloccare la trachea.
Cerco di calmare mio figlio, gli parlo tramite il foro, lo accarezzo, piango e crollo. Mi riportano in stanza e mi impongono di stare immobile per altri 5 giorni.
Il 13 agosto mi dimettono dall’ospedale e il mio compagno, aiutato da una coppia di amici carissimi, mi porta a casa. Mio figlio rimane lì, lo trattengono. Di lui porto con me solo qualche foto sul cellulare e il braccialetto che mi hanno legato al polso quando è nato, identico a quello che porta lui tranne che in dimensioni.
Nell’arco dei ventidue giorni che Matteo trascorre all’Isola Tiberina in terapia intensiva, il mio compagno ed io abbiamo la possibilità di alternarci tra noi e con le altre coppie di genitori nella marsupioterapia. Il 15 agosto tocca a me alle 13:30 per mezz’ora: mi sdraio su una poltrona reclinabile e un’infermiera prende mio figlio e lo appoggia a pancia in giù sul mio seno e sulla mia pancia, pelle a pelle. Non riesco a descrivere quella fortissima emozione.
Matteo rimane sempre collegato al saturimetro. Quando i nonni e gli zii vanno a vederlo dietro la vetrata mi dicono, come se volessero distrarmi, “è un bambino che non sta mai fermo, scalcia e con i piedini si spinge avanti fino a toccare con la testa il vetro dell’incubatrice”… Io so bene perché e ingoio la pillola amara… so bene che Matteo si dimena non perché sia un bambino movimentato e giocherellone, ma perché respira male e il suo corpo spesso si inarca e si irrigidisce perché lui cerca di superare in questo modo le sue apnee e le ipossie…e ogni suo respiro è simile ad un rantolo e il suo sterno rientra molto durante la respirazione … e sto male al pensiero.
Il 25 agosto, dopo aver tanto insistito perché i medici dell’Isola Tiberina contattassero il Bambino Gesù, Matteo lascia i suoi compagni di stanza con cui ha trascorso, tra una severa apnea e l’altra, ventidue giorni e viene trasportato in ambulanza presso l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, al Gianicolo. Il mio compagno ed io, molto provati ma sollevati per questo tanto atteso trasferimento, con il cuore in mano seguiamo in motorino l’ambulanza che corre a sirene spiegate da un lato all’altro del Lungotevere. Nostro figlio sta lì dentro...chissà come sta? Com’è spaventato … chissà quante torture e pratiche dovrà ancora subire … perché gli è successo questo?Lo ricoverano in patologia neonatale e viene subito monitorato e trasportato, dopo 4-5 giorni, in terapia intensiva neonatale. Lì lo visitano il dott. Mario Zama insieme al dott. Sergio Bottero e al dott. Piero Bagolan. Il dott. Zama con fermezza ci espone in pochissime parole il programma di intervento: “tac, tracheotomia e distrazione mandibolare… a sei mesi chiusura del palato”.
Il 29 agosto passiamo la serata con il gruppo di genitori conosciuti all’isola tiberina, con i quali si è creata subito un’atmosfera molto familiare. Alla fine della serata telefono in TIN come tutte le sere e il medico mi spiega che Matteo ha avuto parecchie crisi respiratorie importanti e come conseguenza di ciò ha molta anidride carbonica nel sangue. Per controllarne il valore gli hanno giù fatto tre prelievi ematici. Non sono riusciti ad intubarlo perché il passaggio è troppo stretto, ma a posizionargli una nasocannula portando i suoi valori quanto più vicini possibile alla norma. A casa mi viene un attacco di panico mentre sono a letto: ho la sensazione di avere troppa aria nei polmoni. Mio figlio sta malissimo e io sono qui comodamente sdraiata sul letto morbido invece di stare vicino a lui!!! Mio figlio è il mio RESPIRO.
Nei primi tre mesi e mezzo di vita, tutte le giornate trascorse da Matteo in ospedale sono molto dure. Ogni momento buono dura poco e lui si sta perdendo la tranquillità che un neonato dovrebbe avere, ogni coccola, ogni carezza, ogni cura della mamma. Le coccole e gli abbracci sono sostituiti da risvegli improvvisi e forzati, dolori, fastidi, accanimento, punture, aghi che esplorano le vene delle sue braccia, dei suoi piedini e anche della testa pur di trovare accesso e stabilità; ogni volta che deve tenere la flebo è un macello! Le infermiere si avventano su lui e provano, riprovano. Io provo ogni tanto a dire “non è meglio se chiamate un anestesista che riesce subito?”, ma loro mi guardano male, incavolate perché non riescono e alla fine mi chiedono di uscire dalla stanza e di aspettare nel corridoio …Le spinge l’orgoglio e intanto mio figlio piange e si dispera; io sento che lo aspirano e il rumore delle sue secrezioni…piange troppo…ha paura, ha male... e la sua mamma dov’è? Perché si ferma come un coniglio bastonato in corridoio? Perché non entra dentro e spacca tutto? Perché non comincia a menare a destra e manca?
Come la maggior parte delle volte, alla fine le infermiere si arrendono e chiamano l’anestesista: lui arriva, infila l’agocannula in un secondo e va via. Io rientro in stanza e mi rimetto seduta in lacrime vicina a Matteo che singhiozza in silenzio ed è pieno di buchi ovunque … E la RABBIA divampa, ma sto zitta. Sì, perché quando hai un figlio ricoverato in un reparto in cui non puoi essere sempre presente, devi per forza ingoiare tanti rospi, tanti bocconi amari, essere buona e diventare pian piano amica delle infermiere sperando che la notte vadano spesso a controllare il tuo bimbo anche se il suo pianto è silenzioso a causa della tracheotomia…niente voce.
Il 30 agosto ancora una giornata piena di passione per Matteo: gli tengono la cannula di Mayo in bocca, ma lui si agita così tanto che desàtura di continuo e l’anidride carbonica sale a palla nel suo sangue. Alla fine il medico ha deciso di togliergliela, ma di sedarlo e di fornirgli ossigeno… la notte sto male dopo la telefonata ai sanitari della terapia intensiva.
Le giornate passano nella saletta di attesa dove anche gli altri genitori dallo sguardo impassibile attendono di poter entrare, due volte al giorno per un’ora al massimo, in terapia intensiva e stare vicini al proprio figlio. Il rito è sempre lo stesso: quando si avvicina l’orario dell’ingresso ci mettiamo in fila in silenzio davanti il lavandino, ci laviamo e disinfettiamo le mani, indossiamo il camice, i calzari, la cuffia e, nel caso qualcuno sia raffreddato, anche la mascherina. I volti delle mamme sono spenti, anche il mio… i papà a volte si scambiano qualche battuta per alleggerire un po’ il campo… ogni giorno una suora o Don Mario, uno dei sacerdoti dell’ospedale, passano a salutare i genitori, a rincuorarli o a convincerli che forse è il momento di battezzare il piccolo… “NOOOO!!!! Grazie, ma mio figlio si battezzerà solo se uscirà vivo da questo posto. Gesù eventualmente lo accoglierà con tutto il peccato originale!!! NON VOGLIO”…ogni volta che assisto ad un battesimo dentro la terapia intensiva, poco dopo il bimbo muore… e io non accetto mai l’invito della suora che comincio ad odiare.
Prima di entrare in terapia intensiva, i volti dei genitori sono cupi, senza espressione alcuna; quando varchiamo la soglia della sala dove i nostri figli sono distribuiti nei vari lettini, gli sguardi delle mamme e dei papà si accendono e i sorrisi si manifestano. Ogni mamma accarezza il proprio figlio e comincia a sorridergli e a parlargli, … dai forza amore, ce la faremo! … visto come sei bello oggi?… visto che stanotte è andata meglio?… quando usciremo da questo posto faremo una grande festa … presto sarai tra le mie braccia … sai che la sorellina non vede l’ora di vederti e giocare con te ? …
Passata la mezz’ora a disposizione e usciti fuori dalla sala, quella finta aria di festa velata di ottimismo cessa immediatamente. Ogni genitore si spoglia della “divisa” e ci si divide: le mamme vanno nella saletta piccolissima dove stazionano i tiralatte e i papà vanno giù a comprare il giornale o a fare due passi o a lavoro o a sbrigare faccende.
Nella saletta dei tiralatte si svolge un altro rito altrettanto doloroso e umiliante: noi mamme cerchiamo di estrarre dal nostro corpo il cibo per i nostri cuccioli. Ci sforziamo di bere acqua, di mangiare bene per produrne quanto più possibile e di buona qualità. Nonostante la pazienza e l’impegno, per alcune di noi la dose uscita diminuisce ogni giorno di più e scatta interiormente un senso di frustrazione unico che aumenta e si trasforma in complesso di inferiorità quando qualche mamma, un pò poco delicatamente, fa notare a voce alta che dal suo seno è uscito un sacco di latte. Ogni giorno che passa il mio diminuisce; dopo il secondo intervento di Matteo cesserò del tutto di frequentare quella “stanzetta dell’orrore” con un po’ di dispiacere per Matteo, ma con una sensazione di liberazione per me.
Tutti i giorni passano a turno anche le psicologhe … Come mi possono aiutare??? Le accontento: faccio parlare loro e io ascolto. Mi fanno le domande, mi chiedono come mi senta… e come mi sento?!? Una straccio!!!... vorrei rispondere, ma invece dico tutti i giorni la stessa cosa con qualche variante: “andiamo un po’ meglio… andiamo un po’ peggio…mah, così così …” e loro allora “si eccitano” e cominciano a parlare e invece io vorrei stare da sola con mio figlio perché il tempo che abbiamo a disposizione è pochissimo. Faccio finta di ascoltarle e fisso Matteo. Ce n’è una che continua a chiamare mio figlio Alessandro e subito dopo mi chiede scusa dicendo che Matteo le fa ricordare suo figlio quando era piccolo. Un’altra psicologa molto dolce, Lucia, ogni mattina fa trovare ai genitori accanto ad ogni lettino un foglio con su scritto un messaggio da parte dei nostri figli con tanto di disegno.
In realtà una psicologa riesce a farmi sfogare quando un giorno arriva mentre sono vicina a Matteo agitatissima con i medici e le infermiere. Non ce la faccio più. Tutto è diventato enormemente insopportabile. Sento di esplodere, di impazzire. Lei mi conduce in una stanzetta e viene travolta da un fiume in piena di parole e di singhiozzi. Quando finiamo di parlare e ritorno da Matteo sorrido un’altra volta.
L’1 settembre il mio compagno ed io incontriamo e colloquiamo con il dott. Zama al quale faccio una miriade di domande sull’intervento. Mi tranquillizza molto sentirlo parlare. Nel frattempo continuano a sedare mio figlio perché cerca di strapparsi di dosso tubi e tubicini. Dalla terapia intensiva sollecitano l’otorino ad anticipare la tracheostomia che si fissa per il 6 settembre. Il 4 settembre però Matteo sta sempre peggio e si decide per anticipare l’intervento al giorno dopo.
Amore mio, oggi mi guardavi fisso negli occhi e non facevi altro. Amore mio, tu devi vivere e devi tornare tra le mie braccia, dalla tua mamma che ti adora. La mamma vorrebbe proteggerti; tu sei una parte di me, sei il mio unico pensiero. La tua sorellina mi da forza. Mangio per nutrirti col mio latte. Cerco di mostrarmi a te serena per passarti tranquillità. Ce la farai!! Domani ti libereranno la bocca e forse starai più sereno. Amore vivi!!!! Fallo per la tua mamma !”
Il 5 settembre il primo intervento, forse il più pericoloso per la sua vita: lo tracheotomizzano. Prima dell’intervento siamo invitati a firmare il consenso informato da parte dell’anestesista e del dott. Bottero che ci mettono in guardia “Il bambino ha alte probabilità di non farcela. Ma la morte per asfissia non si augura a nessuno”. Firmiamo disperati quel maledetto consenso.
Fuori dalla sala operatoria aspettiamo con trepidazione, ma congelati dentro, che il chirurgo apra la porta e dica come è andata. Con me il mio compagno e mia sorella. Sono disperata, ma non riesco neanche a piangere… il mal di testa non mi abbandona mai. Finalmente una delle tante volte in cui si apre quella porta del reparto operatorio il dott. Giangrande, assistente del dott. Bottero, si affaccia sorridente e ci fa il segno dell’Ok con la mano e ride gioioso “MATTEO CE L’HA FATTA!!”.
Quando esce dalla sala operatoria è gonfissimo in volto, fermo, immobile. Per quattro giorni sarà in terapia intensiva aiutato anche a respirare con il respiratore. Gli hanno somministrato il curaro che immobilizza tutti i muscoli in modo che la ferita in trachea si rimargini.
L’8 settembre staccano Matteo dal respiratore e io lo prendo in braccio con molta delicatezza mentre sto seduta. Mi insegnano ad aspirare le secrezioni che vengono fuori dalla cannula…usciremo fuori da quest’incubo…quanta sofferenza…
Ancora però non può esserci un abbraccio totalmente completo con mio figlio: prima del 5 settembre potevo a volte solo tenerlo a pancia in giù sul mio braccio; dopo il 5 settembre lo tengo a pancia in sù sul braccio perché è pericoloso attaccarlo al mio petto per il rischio di decannularlo. Ogni mattina a casa mi sveglio presto, dò il latte a Martina, mi vesto e col motorino vado in ospedale. Anche se posso stare con Matteo solo poco tempo, non mi va di andare a casa e rimango lì, in sala d’attesa, perché sento l’esigenza di stare vicino a lui anche se non posso stargli sempre a fianco.
Con mio figlio rido, sorrido, canticchio, parlo sottovoce per proteggere la nostra intimità già violata. Lontano da Matteo, mentre aspetto fuori dal reparto di potere rientrare, sto male e sul mio volto il sorriso ricompare soltanto quando ritorno da lui.
La sera quel sorriso riprende forzatamente vita un attimo prima di entrare a casa. Sul pianerottolo mi ricompongo, mi sistemo i capelli e mi sforzo di ridere perché Martina mi aspetta e mi vuole vedere felice, serena, allegra. Suono il campanello e, una volta abbracciatala, comincio a fingere e a giocare con lei, piccolina, che ha solo bisogno di normalità, affetto, amore e cura.
Il 17 settembre, dopo aver chiesto un permesso speciale al primario, Martina viene con noi in ospedale. È un giorno speciale perché mia figlia, tutta vestita di verde (camice, copriscarpa, cuffia e mascherina, per la prima volta tocca suo fratello, lo accarezza, bacia e in qualche modo anche lo prende in braccio tenendogli il ciuccio in bocca. Vogliamo che lei lo veda e lo sfiori per la prima volta senza che lui abbia i distrattori alla mandibola. Facciamo pure qualche foto tutti e quattro insieme.
Il 19 settembre il dott. Zama lo opera alla mandibola: gli appone i distrattori esterni e per il mio piccolo comincia un’altra ardua impresa. Dopo qualche giorno di pausa inizia l’allungamento millimetro per millimetro e una mattina, improvvisamente, mentre ha la bocca aperta la sua lingua, della quale fino a questo momento abbiamo visto solo un pezzettino perché bloccata in trachea, esce tutta fuori come se si srotolasse… ci sembra un miracolo.
La sua mandibola sarà allungata fino al 23 ottobre per 2 cm e mezzo. Nel frattempo si alimenta esclusivamente tramite sondino nasogastrico che, qualche giorno prima della dimissione, imparo a posizionargli con grande disagio e dolore.
Per tutto il periodo in cui Matteo rimane ricoverato tra terapia intensiva e chirurgia neonatale, io e il mio compagno possiamo entrare vestiti come marziani in camice, calzari, cuffia, solo in alcuni momenti della giornata. Matteo sta sempre nel suo lettino, a pancia in su, con le braccia legate alle gambe da un nastro di garza in modo tale che le manine non tolgano via il sondino o peggio ancora la cannula tracheostomica. La sua testolina non può girarsi né a destra né a sinistra poiché, per far sì che i distrattori non si muovano, le infermiere gli fanno appoggiare la nuca all’interno di un cerchio creato con un lenzuolino. La sua voce non si sente, il suo pianto non si sente, i suoi gorgoglii non si sentono e nessuno si accorge pertanto di lui se sta per vomitare o se si lamenta… spesso le infermiere lo trovano con i vestitini e il viso e il collo sporchi di vomito… il sondino gli da fastidio e lo porta a vomitare spesso.
Le cose che più mi fanno stare male in questo periodo sono due. La prima è andare via dalla stanza, allontanarmi forzatamente da mio figlio perché l’orario di ingresso dei genitori è limitato. In particolare la sera lasciarlo lì da solo nel suo lettino in quelle condizioni. I suoi occhi sono vigili, attenti e nonostante tutto vivi; mi seguono ovunque se io mi sposto e mi cercano, si sgranano quando incontrano i miei, a volte mi sorridono anche. I suoi occhi mi chiedono di restare lì ogni giorno e ogni giorno sono costretta a tradirli. Quando arriva il momento di andare, mi alzo, lo bacio, dò una carica al carillon che, legato all’asta della flebo, è sospeso in aria davanti a lui per distrarlo e vado via senza voltarmi indietro. Mi dirigo fuori, mi spoglio e mi affaccio qualche secondo sul balcone che costeggia la stanza in cui si trova Matteo e sbircio dietro la vetrata; il suo lettino è il primo a sinistra vicino alla finestra; il carillon ha smesso di suonare e ora non c’è nessuno che possa ridargli corda, di certo non l’infermiera. Matteo si accorge che la mamma non è più vicino a lui e mi cerca con gli occhi rimanendo deluso… piange. Questo mi logora e il dolore non andrà più via.
L’altra cosa che mi fa molto male e che neanche il mio fisico sopporta è tornare la mattina in reparto da Matteo e rendermi conto che né l’infermiera di guardia né nessun altro si sia accorto che lui ha vomitato perché “muto”. Amore mio, non ti sentono. Il tuo pianto silenzioso, i tuoi conati vengono lasciati a se stessi e vengono coperti dal pianto squillante dei tuoi compagni di sventura che riescono invece ad attirare le attenzioni.
E Matteo LOTTA anche così, continua a lottare. Io continuo a dirmi che tutto passerà, che lui starà finalmente bene, che “dopo il buio vien la luce”, che devo ridergli perché sia più sereno e non mi veda triste e cupa.
Per ventuno giorni Matteo assume morfina che lo rende a volte nervosissimo e rabbioso, con lo sguardo un po’ perso. Durante una delle crisi di astinenza ho creduto di perderlo definitivamente: il suo battito cardiaco si è abbassato tantissimo ed è diventato cianotico e io da una parte e l’infermiere dall’altra abbiamo urlato il suo nome disperatamente mentre Francesco, così si chiama quell’angelo di ragazzo, lo rianima e richiama l’attenzione dei medici che arrivano di corsa. Quando tutto passa io sono distrutta, ma Francesco decide di fermarsi per un altro turno e stare vicino a lui; gli disegna sul lenzuolo un fiore e un cuoricino. Non dimenticherò mai questo gesto.
Nei reparti di neonatologia non puoi, non riesci a pensare solo a tuo figlio e alla sua salute, ma ti interessi ogni giorno dell’evoluzione della salute degli altri bambini dando priorità, nella richiesta di informazioni al personale sanitario, a chi il giorno prima è stato peggio. Nella nostra stanza per un periodo è ricoverato Rosario, bimbo di Catania, che ha una sindrome rara e molte crisi respiratorie …di continuo…e tanti problemi, veramente tanti. Un giorno Rosario, che è il jolly della stanza, non ce la fa. Non riesce a superare l’ennesima crisi e chiude gli occhi per sempre dopo aver lottato per cinque mesi dentro quell’ospedale. I suoi genitori sono circondati da tutti noi: Rosario in quel momento è il figlio di tutti …il dolore è di tutti… non dimenticherò mai la visita della mamma e del papà, seguiti da noi altri, all’obitorio del Bambino Gesù.
Primo ingresso a casa – 13 novembre 2006
Matteo mette piede per la prima volta a casa, a tre mesi e mezzo, con tanto di tracheostomia, distrattori mandibolari e sondino nasogastrico. Qualcuno bussa alla porta di casa. Martina apre la porta e trova sul pianerottolo un fagottino stramedicato, silenziosissimo (a causa della tracheostomia). Mia figlia è finalmente felice, salta, salta ancora, canta “Ben arrivato quaggiù!”… finalmente ha e tocca suo fratello.
Io comincio a svolgere anche il ruolo di infermiera con assistenza totale: decido che a posizionargli il sondino di volta in volta sarò io, a fare le medicazioni sarò io e a fargli tutte le cose più antipatiche da sopportare sarò io. Voglio evitare tutto ciò al mio compagno e voglio intessere una forte relazione con mio figlio che è sempre mancata, anche se lo faccio facendogli male. Una delle prime volte in cui posiziono il sondino sbaglio e glielo infilo nel canale sbagliato… lui diventa nero e piange, sempre in silenzio, si dispera… è notte… lo estraggo subito e corriamo al Bambino Gesù. Lì Antonietta, un’infermiera con tanta esperienza e tanta pazienza, mi insegna di nuovo come tenere la testa di Matteo e il suo collo mentre gli infilo il tubo nel naso con una manovra decisa e approfittando del suo pianto. Una delle cose più terribili che si possa chiedere ad una madre di fare. Per capire meglio cosa provi mio figlio, un giorno a casa prendo un sondino e, mentre il mio compagno dorme sul divano, provo a posizionarlo dentro me così come faccio di solito con Matteo. Ci riesco, ma solo fino all’inizio dell’esofago. Poi mi fermo. Sveglio il mio compagno che mi guarda incredulo, ma mi lascia fare.
Ogni giorno, o quasi, provo comunque a dargli del latte per bocca per farlo abituare, ma più che deglutire Matteo lo butta giù mentre piange a dirotto. A volte riesco a mettergliene dentro 30-40 cc, ma è solo una violenza per lui ed un’illusione per me. Lui piange, piange…sempre in silenzio…l’unico rumore che si sente è quello delle secrezioni che vengono su e dell’ugula che lascia passare a fatica il latte. La mia preoccupazione è la probabilità che gli mettano la PEG.
Matteo vomita spesso. Abbiamo provato a cambiargli sondino usandone uno a permanenza più sottile e più morbido ma mio figlio non lo sopporta lo stesso. Abbiamo provato ad addensargli il latte aggiungendo polvere di mais o tapioca o varie farine lattee, ma niente… vomita sempre. Martina gioca con lui e gli dice continuamente che lui diventerà grande come lei, di non piangere perché c’è lei vicino e di mangiare. Mia figlia, felice di averci a casa, continua a dire “tutti insieme!”. Provo in tutti i modi a dargli da mangiare per bocca, ma forse sbaglio…a volte sento di perdere tempo prezioso e non riesco ad intavolare un rapporto buono tra il cibo e Matteo, ma troppa è la tensione e me ne rammarico.
Nuovi ricoveri
Passano due settimane: il 27 novembre 2006 torniamo in ospedale per quindici giorni perché il chirurgo maxillo-facciale di Matteo, dott. Zama, vuole che Matteo si svezzi dal sondino nasogastrico con l’aiuto delle infermiere.
L’11 dicembre 2006 torniamo a casa con Matteo senza distrattori, ma ancora con sondino e tracheostomia e l’ordine che mi viene dato dal dott. Zama è “dovete assolutamente insegnargli a mangiare per bocca, altrimenti dovranno mettergli la PEG…!!!”. Le infermiere del reparto di chirurgia plastica non riescono a svezzarlo e ad abituarlo a mangiare per bocca. Lui si ostina a non muovere la lingua e a inghiottire e continua a piangere in silenzio quando gli si infila latte in bocca.
Prima di tornare a casa prendiamo contatti con una logopedista disfagista di cui ci hanno parlato molto bene, Antonella Cerchiari, che accoglie Matteo e me e ci accompagna in un percorso lungo e tortuoso, ma fondamentale. Lo fa con una grinta e con una forza che riesce, anche se poco all’inizio, a darmi gli input giusti per incoraggiare mio figlio a mangiare per bocca. A gennaio, dopo qualche settimana di logopedia smetto di portare Matteo Al San Raffaele in via Pisana perché vomita spesso e gli esercizi che la fisioterapista gli fa fare per risvegliare i suoi muscoli gli danno fastidio e gli procurano nausea e vomito.
Matteo deve raggiungere il giusto peso, 6 kg e anche la giusta età, 6 mesi, perché possa subire l’intervento di palatoplastica. Lo alimentiamo a casa di giorno e di notte, ma lui non tollera, tramite sondino, più di un ml di latte al minuto. A casa io e il mio compagno facciamo i turni di notte per poter riposare almeno due o tre ore. Io sempre affiancata da mia madre e lui sempre spalleggiato da mio padre. Da metà novembre fino ad aprile 2007, decidiamo di provare a stare svegli una notte ciascuno, sempre in coppia per evitare che uno di noi due si addormenti col bimbo in braccio e non inietti latte nel sondino con la siringa. Dopo qualche giorno, visto che io rimango sempre comunque sveglia a controllare che tutto vada bene, che lui sia aspirato bene e ad essere pronta a rimettergli il sondino, decidiamo di stare con Matteo a turno tre ore a testa di notte e anche mio padre e mia madre fanno così di conseguenza. In questo modo quando mi distendo sul letto, abbracciata a Martina riesco a chiudere un po’ gli occhi, anche se salto in piedi e corro verso il salone o la cucina ogni volta che l’aspiratore si accende. Ho il terrore che mio figlio abbia vomitato e che il rigurgito sia andato a finire nella cannula… non posso permettere che gli venga la polmonite per ingestione di cibo…e piango e poi cercano di rimandarmi a letto, ma la loro partita è sempre persa.Ogni mattina all’alba, mia madre ed io spogliamo Matteo e, con le dita incrociate, lo pesiamo su una bilancia elettronica che ho preso in affitto… 20 grammi!!! È cresciuto 20 grammi!!! Bravo amore, continua così!!! Devi crescere perché devi operarti!!! E quando avrai il palato chiuso di sicuro imparerai a mangiare!!!
Ci sono anche i giorni in cui mi abbatto perché quei venti grammi li ha persi, anziché prenderli.
I primi di febbraio 2007, raggiunti età e peso giusti, Matteo viene ricoverato in pediatria generale, in una stanza che accoglie un unico letto, in attesa dell’intervento di palatoplastica. Le analisi riscontrano però diverse infezioni e l’anestesista naturalmente è contrario a portarlo in sala operatoria. Deve prima liberarsi delle infezioni. Il 20 febbraio 2007, passate le infezioni o quanto meno le peggiori, il dott. Zama lo opera al palato e glielo chiude. Matteo esce dalla sala operatoria con sondino posizionato e tracheostomia, dalla quale non è riuscito ancora a svezzarsi. Nel frattempo Matteo viene messo in lista per un altro intervento chirurgico durante il quale dovrebbe mettere la PEG.
Uscito dalla sala operatoria non ritorna nel reparto dove era stato fino alla mattina, ma il dott. Zama trova un posto per lui nel reparto di chirurgia plastica. Veniamo dimessi il 28 febbraio mentre in reparto dilaga una violentissima influenza gastrointestinale. Arriviamo a casa e il mio primo obiettivo è quello di sfruttare il suo nuovo palato chiuso per insegnargli a gestire il latte in bocca. Ci provo, ci riprovo, cerco di non cedere alla mia stanchezza e alla esasperazione di Matteo, ma lui continua a vomitare e quel vomito diventa sempre più frequente… mi sento impotente, mi dispero quando sono sola, ma di fronte a Matteo e Martina sorrido e mi convinco che tutto andrà bene!
2 marzo 2007 – nuovo ricovero
Matteo vomita ed ha tante scariche di diarrea; è divenuto uno straccetto, lo portiamo al pronto soccorso del Bambino Gesù. Sorrido a Matteo e dopo un po’ ci accompagnano di nuovo in Pediatria 0 e ci danno una stanza con un unico letto. Matteo rimane ricoverato fino al 20 marzo. Quella stanza diventa la nostra seconda casa; superata l’ipotermia, dalla quale è uscito anche grazie all’aria calda che gli anestesisti ci hanno detto di fargli arrivare addosso tramite l’asciugacapelli e le borse dell’acqua calda, e superati i primi quattro giorni di assoluto digiuno, di nascosto alle infermiere e anche ai medici del reparto abbiamo deciso di sfruttare la fame di Matteo per stimolarlo ad ingoiare qualche goccia per bocca. Usiamo il sondino solo per le terapie. Giorno dopo giorno acquistiamo terreno, ma abbiamo ancora bisogno di tempo e quando la mattina il medico di turno deve scrivere in cartella clinica la quantità di latte da somministrare per sondino al bambino e ci chiede come sia andata il giorno prima noi rispondiamo “vomita ancora il latte…” … e il medico non aumenta le quantità. Questo ci permette di avere più giorni a disposizione in ospedale, e quindi assistiti in sicurezza, per dare tempo a Matteo di abituarsi a bere per bocca quantità di latte giorno dopo giorno maggiori.
Arrivati a dargli con siringa 85 ml di latte, ci confessiamo con i medici e loro, per niente arrabbiati ma contenti, ci vengono incontro. Il dott. Zama, che passa di tanto in tanto per vedere come stia Matteo, chiede la consulenza dell’otorino, dott. Bottero, perché vuole provare a svezzarlo dalla tracheotomia. Mesi fa abbiamo provato, ma lui non era pronto e ogni volta che gli tappavamo la cannula desaturava troppo e diventava cianotico. Poi col tempo a casa, noi da soli d’accordo con Antonella Cerchiari, abbiamo provato a tapparlo servendoci anche della valvola fonatoria che gli e ci ha permesso di sentire la sua voce…che meraviglia! Le prime volte che la ascolta Matteo è terrorizzato, non si riconosce e ogni volta che emette un suono sgrana immediatamente gli occhi e urla dalla paura e più urla più aumenta la sua paura! Io lo tranquillizzo e rido di questo. La maggior parte delle volte, però, all’inizio finisco per togliergli la valvola fonatoria o il tappo non appena lui comincia a piangere… in realtà teme se stesso.
Il dott. Bottero decide di tappare la cannula e di tenerlo sotto osservazione tramite polisonnografia per cinque notti. La prova va benissimo. Ogni notte la passo a fianco a Matteo, sveglia, perché ho terrore che gli succeda qualcosa mentre io dormo. Sto sveglia e continuo per ore a fissare il monitor del saturimetro. Ad ogni suo colpetto di tosse salto sulla sedia e prego che mio figlio non desàturi. Dopo cinque giorni e dopo un esame endoscopico, arriva in stanza il dott. Bottero con l’infermiera e decide, superata qualche titubanza, di togliergli la cannula: gliela sfila dal collo, osserva Matteo, le sue secrezioni, le sue reazioni. Il piccolo sembra sereno e sollevato e io incrocio le dita e prego perché tutto vada bene e perché nessun intoppo cancelli la gioia di questo momento. Il dottore dice a mio figlio “amico mio, tu mi dai grandi soddisfazioni!”, mi saluta, si gira e se ne va seguito dall’infermiera chiudendo la porta. E’ il 15 marzo 2007 !!!
Quando tutti vanno via dalla stanza e rimango da sola con mio figlio. Riesco per la prima volta da quando è nato ad abbracciarlo completamente e senza paura di fargli male: un momento che non dimenticherò mai. Niente più sondino, niente tubi in gola, niente ferri, niente garze alla braccia. Solo io e lui. Matteo gioisce, ride e si appoggia al mio petto in silenzio. Continua a strusciarsi con il viso sul mio petto, poi si ferma e pare ascoltare il mio battito, poi mi guarda. Le sue braccia sono flosce, lui è uno straccetto, ma quello è un abbraccio speciale. Si rilassa, si abbandona tra le mie braccia e non dimenticherò più il punto preciso di quella stanza del Bambino Gesù dove, rimasti da soli, abbiamo potuto godere per la prima volta del nostro abbraccio. Mamma e figlio di nuovo uniti, come quando lui era in pancia e come doveva essere il 3 agosto 2006. Si addormenta sereno.
LA RINASCITA
Dal 15 marzo 2007 Matteo ha cominciato a vivere, ad uscire fuori casa, ad osservare il mondo, a conoscere gli animali, gli altri bambini, la natura, le nuvole, la pioggia, il mare, i giochi, le esperienze che gli sono mancate, qualsiasi esperienza.
E’ iniziato il periodo della rinascita e della ripresa, del recupero. Il tempo perduto è stato pian piano recuperato e una lunghissima riabilitazione lo ha coinvolto. Ha fatto in totale undici interventi: oltre ai primi tre, una faringoplastica, due posizionamenti dei drenaggi transtimpanici e, visto che non ci facciamo mancare niente, un’ernia inguinale! Gli ultimi tre sono serviti a sistemare la cicatrice ritraente della tracheotomia.
Adesso Matteo ha quasi dieci anni e sta bene. E’ un bambino che non si ferma davanti a nulla, coraggioso, forte e impavido oltre misura. Non si ferma di fronte a nessun ostacolo. Ogni limite per lui è da superare e si trasforma subito in sfida. È forte, determinato, sicuro e deciso. Riesce a cavarsela in qualsiasi situazione, da solo e con coscienza. Frequenta la quarta elementare, è bravo a scuola. Studia chitarra, gioca a basket e a calcio. Appassionato di storia, da grande vuole fare lo storico e paleontologo.
E’ un bambino molto maturo per l’età che ha. Conosce tutto di sé, della sua nascita, del suo percorso chirurgico e non. Rivede spesso le foto del primo anno di vita, ride e ironizza su se stesso. Si spacca in due dalle risate quando gli racconto che tanto tempo fa stavo per mettergli il sondino nasogastrico, ho sbagliato e gliel’ho ficcato nei polmoni… ride come un matto quando vede le foto in cui lui sta con il sondino che pare venir fuori dalla fronte verso l’alto… tipo uno snorky!!!
Lui, che prima si arrabbiava se gli altri gli chiedevano perché avesse quella cicatrice al collo, ora è sereno, spiega tutto ai suoi amici. Spesso la sua rabbia ci portava ad affrontare tanti discorsi e a cercare di risolvere tanti suoi perché…
Oggi, a posteriori, dico e sono convinta dell’ottimo lavoro svolto da e con Matteo. L’incoraggiamento e gli stimoli continui, sono serviti a ridargli tutti gli strumenti utili per stare bene con gli altri, per rinforzarsi di più caratterialmente, per raggiungere una saggezza che poco ha a che vedere con i suoi nove anni, per sopportare qualsiasi tipo di dolore con minor pena, per provare sempre a superare se stesso.
Quello che continuo a tenere presente per me, quello che consiglio a tutti i genitori che magari sono all’inizio di un percorso simile a quello di Matteo è di non perdere mai la speranza, ma nello stesso tempo di non lasciare il caso al caso, di sfruttare ogni risorsa ogni tempo per stimolare il proprio figlio. Bisogna programmare un lavoro di recupero e di riabilitazione che non si limita all’oretta che il figlio passa con la terapista, ma che continua a casa… un lavoro che abbia come scopo il riportare in vita e alla normalità il proprio figlio! Bisogna anche dimenticare l’etichetta e il nome della patologia, perché non esiste nessuna regola e nessuna certezza sull’andamento del percorso di ogni bambino. Ci possono essere tantissime Sequenze di Pierre Robin ma ogni bambino è diverso da tutti gli altri. E la diversificazione, oltre che per un percorso ospedaliero e chirurgico, si accentua a seconda del “lavoro” che si propone e che si fa con il proprio figlio. Io oggi spesso non ricordo neanche il nome della malattia rara con cui Matteo è nato… all’inizio in ospedale era un Pierre Robin… oggi, a quasi dieci anni, è esclusivamente Matteo, un bambino splendido e geniale.
Niente ormai mi spaventa. La forza acquisita è enorme. Le lunghe ore trascorse in attesa che ogni intervento finisse, seduta nei pressi della sala operatoria sono state piene di tensioni, preghiere, preoccupazioni, paura, ma il mio approccio è stato sempre quello più ottimistico possibile. Dentro la mia testa non poteva che andare tutto bene, sempre, ogni volta. Ed ero così concentrata sulla necessità che tutto fosse andato bene che qualsiasi imprevisto post-operatorio mi faceva guardare già alla sua soluzione e al suo superamento. Questo mio voler avere a tutti i costi una visione buona di una realtà di per sé molto dura mi ha aiutata a non perdermi mai del tutto d’animo e a risollevarmi subito dopo qualche “scivolone”. In questo modo ho aiutato mio figlio ad essere combattivo e positivo!
MAI FERMARSI !!! MAI MOLLARE !!! stimolare il proprio figlio sempre e indirizzarlo verso la via d’uscita dal tunnel che sembra nei primi tempi buio e infinito, ma che di certo, con impegno, pazienza e determinazione, porterà verso la luce.
Antongiorgia